Bojan Fazlagic
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Da piccolo sognavo di diventare un tennista professionista. Mi allenavo quasi ogni giorno. Se non mi allenavo sul campo del circolo della città, trovavo comunque il modo di giocare e palleggiare nel salotto di casa. Con una piccola racchetta di legno e una palla di spugna simulavo partite palleggiando contro il muro tra due grandi quadri sulla parete che così delimitavano il campo. Alternando i colpi tra il mio tennista preferito e il suo acerrimo avversario, che facevo sempre perdere, raccontavo a voce alta un’accesa telecronaca di quella partita.
Il mio idolo era un giocatore svedese di nome Stefan. Era velocissimo e giocava “serve and volley”, il che era una difficile strategia di gioco da simulare in casa senza urtare il grande tavolo di legno oppure scivolare sul tappeto facendo arrabbiare mia madre.
In effetti seguire un servizio a rete era molto più fattibile sui campi del circolo Kosevo dove mi allenavo in gruppo, insieme ad altri tre compagni, o da solo tre o quattro volte alla settimana.
In realtà i miei genitori decisero di farmi praticare diversi sport sin dall’età di cinque anni per cercare di “combattere” e “limitare” un’asma cronica che contraeva il mio respiro ogni volta che facevo uno scatto prolungato. Ma tra lo sci e l’atletica il tennis occupò sin dall’inizio un posto speciale nei miei pensieri e desideri.
Vedere Stefan contro Boris alla TV che serviva e scattava a rete come un fulmine, piazzando precisissime volley con un “eleganza” mai vista prima, mi aveva conquistato. Mi ritrovavo spesso a pensare a Stefan, Ivan e Boris mentre sul tram attraversavo la città per raggiungere i campi di allenamento.
Era anche spesso il mio ultimo pensiero prima di dormire, perché a tratti era un pensiero elettrizzante, quasi timoroso, e a tratti un sogno e un desiderio di un bambino di nove anni.
Nella primavera del ’92 ho smesso di allenarmi. Non potevo più attraversare la città. Non la poteva più attraversare nessuno in realtà. Nessuno si allenava più in nessuno sport in quella primavera del ’92.
L’unica attività fisica praticata da tutti gli abitanti della città era la corsa verso le cantine quando cadevano le granate oppure gli scatti senza fiato a schivare i colpi dei cecchini per le strade della città.
Non potevo più neanche giocare in casa simulando le partite perché gli ampi finestroni del salotto davano direttamente sulle colline dove erano piazzati diversi carrarmati e su una serie di grattacieli dai quali i cecchini avevano sotto tiro tutta la parte nuova della città.
Così ho smesso di giocare a tennis. Ho smesso di giocare sia sui campi di terra battuta che sul tappeto del salotto di casa.
Con il passare dei mesi ho smesso anche di pensare a Stefan durante le mie giornate e i momenti prima di dormire. Lentamente quei pensieri sono stati sostituti da pensieri di guerra, di armi e missili, di tattiche di battaglia e vie di fuga. I ragazzi negli scantinanti giocavano soltanto ai soldati e alla guerra, e così anch’io fino a dimenticare gli scatti di Stefan come se non fosse mai esistito.
Sono nato e cresciuto fino all’età di 9 anni a Sarajevo. Città centrale dell’ex repubblica federale Bosnia e Erzegovina della Jugoslavia.
Nell’estate del ’94 mi sono trasferito nella provincia di Reggio Emilia che mi ha accolto a braccia e “cuore” aperto dalla fuga del conflitto dei Balcani degli anni Novanta. Il giorno che sono arrivato a Reggio Emilia non parlavo neanche una parola di Italiano, se si esclude il contare da uno a dieci che avevo imparato la sera prima durante il viaggio da Spalato fino ad Ancona.
Nel primo anno dal mio arrivo ho fatto fatica a costruirmi delle amicizie. Mi ci sono voluti almeno sei/otto mesi prima di iniziare a “parlare”, ad esprimere un pensiero senza paura di dire delle cose sciocche.
Mi ci sono voluti degli anni a ritrovare un “mio posto” in un mondo nuovo e diverso da Sarajevo. Con il passare del tempo ho conosciuto persone straordinarie, alcuni dei quali sono diventanti, e sono tutt’ora, i migliori amici/amiche e una compagna di vita molto speciale, la quale spesso mi fa capire che anche in una tragedia come un conflitto o una guerra, nelle avversità e grandi sfortune durante il percorso, da qualche parte, si può trovare amore e gioia da condividere e che ogni momento è degno di essere vissuto per quello che è.
Sono passati tanti anni da quei primi anni degli anni Novanta e Reggio è diventata a tutti gli effetti la “mia” citta. Talmente familiare, che mi sembra che lo sia da sempre. Così ho deciso l’anno scorso di riprendere a giocare a tennis. È stata una decisione rapida quanto limpida. Ero finalmente di nuovo sereno e felice, come lo ero stato prima di quella primavera del ’92.
Ecco, se vi capitasse di fare un salto al circolo tennis di Albinea vi potrebbe capitare di vedere un tizio che cerca di emulare il famoso “serve and volley”, proprio come faceva Stefan tanti anni fa.