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Lunedì 7 luglio Reggio Emilia ha ricordato i Martiri del 7 Luglio 1960 con una celebrazione promossa da Comune di Reggio Emilia, Provincia, Cgil, Cisl e Uil, Anpi, Alpi-Apc, Anppia, Istoreco, Istituto Alcide Cervi e Comitato democratico e costituzionale che La cerimonia è iniziata al Cimitero Monumentale con l’omaggio alle tombe di Lauro Farioli, Ovidio Franchi, Emilio Reverberi, Marino Serri e Afro Tondelli – i ragazzi con le magliette a strisce caduti in difesa dei diritti, della libertà e della democrazia - da parte dei rappresentanti istituzionali, sindacali e delle associazioni partigiane, ed è proseguita in piazza Martiri del 7 luglio per la deposizione di una corona al cippo dedicato ai Martiri del 7 luglio 1960 alla presenza di gonfaloni e labari sul percorso delle “Pietre d’inciampo” poste, in memoria dei caduti, in cinque luoghi della piazza.

Alle 18 le celebrazioni si sono spostate ai Giardini pubblici dove il sindaco Marco Massari ha aperto gli interventi con una saluto alle tante autorità presenti e il ricordo del sacrificio di cinque giovani che credevano nel futuro e nella democrazia.

Riguarda la cerimonia

“Ci ritroviamo qui oggi, come ogni anno, dopo 65 anni, ad onorare la memoria dei martiri del 7 luglio 1960 Ovidio Franchi, Lauro Farioli, Emilio Reverberi, Marino Serri e Afro Tondelli – ha detto il sindaco Massari - Cinque nomi, cinque vite diverse unite da uno stesso destino: uccisi per aver difeso la democrazia e i diritti conquistati. Quelle morti rappresentano il prezzo di un impegno civile che non voleva scardinare lo Stato, ma farne parte attivamente e consapevolmente. La politica, tuttavia, faticava a rispondere ad un Paese che si era già trasformato e nel luglio del 1960 furono proprio i giovani a vivere in prima persona quel bisogno di modernità. Divennero protagonisti nelle piazze, nei comizi, negli scontri tragici, nella morte. Noi ricordiamo quei ragazzi non solo per la riconoscenza che dobbiamo loro per la loro etica disinteressata ed egualitaria; li dobbiamo ricordare perché loro sono la nostra pietra angolare per fronteggiare un disegno preciso di revisionismo, di riscrittura di ciò che è stato. La nostra Italia, l’Italia che amiamo, è nata il 25 aprile del 1945. Quei ragazzi sono stati il meglio della nostra storia: il loro coraggio, la loro ingenuità, la loro generosità sono le radici della reggianità”.

Sono quindi intervenuti la vicepresidente della Provincia Francesca Bedogni, Ettore Farioli, figlio di Lauro, e, infine, il giornalista e scrittore Maurizio Maggiani, il cui ultimo lavoro, “La memoria e la lotta. Calendario intimo della Repubblica”, si concentra sulla memoria intesa come atto di responsabilità e impegno civile intrecciando la Storia collettiva con le storie individuali.

A Reggio, Maggiani ha incentrato il suo intervento sul senso della testimonianza invitando a riflettere sulla testimonianza che ci consegnano i martiri del 7 luglio 1960: “Cosa hanno testimoniato quei giovani di una Repubblica appena nata, fondata sul lavoro, sulla vittoria contro il nazifascismo, l'ingiustizia sociale e l'oppressione? Testimoniavano il diritto alla dignità della loro vita e del loro lavoro, quel diritto sancito nella nostra Costituzione che sta a noi tener viva. Oggi abbiamo il dovere di essere testimoni di quella Repubblica, affinché non perda il suo senso fondativo, perché ricordare vuol dire anche imparare dalla storia che talvolta, se siamo molto distratti, può ripetersi. Ciò che ci deve premere – ha concluso - non è ricordare dei morti, ma le loro vite, la vitalità di quella Repubblica e la vitalità della loro protesta e della loro coscienza repubblicana. La memoria è viva e quei cinque martiri non saranno morti finché noi ci prenderemo la responsabilità della memoria”.

L'intervento del Sindaco

Saluto le autorità civili e militari, i famigliari delle vittime, i rappresentanti sindacali e delle associazioni, Istoreco e Casa Cervi, i consiglieri regionali e comunali presenti, i sindaci. Ci ritroviamo qui oggi, come ogni anno, dopo 65 anni, ad onorare la memoria dei martiri del 7 luglio 1960: Ovidio Franchi, Lauro Farioli, Emilio Reverberi, Marino Serri e Afro Tondelli. Cinque nomi, cinque vite diverse ma unite da uno stesso destino: uccisi per aver difeso la democrazia , le istituzioni , le libertà e i diritti conquistati.
Ovidio, Lauro, Emilio, Marino e Afro erano operai, contadini, giovani uomini del popolo reggiano. Non cercavano lo scontro ma erano in piazza per difendere il lavoro, la dignità, la nuova Italia costituzionale ancora giovane, fragile e segnata da profonde tensioni sociali.
Quelle morti rappresentano il prezzo, doloroso e insopportabile di un impegno civile che non voleva scardinare lo Stato, ma farne parte attivamente e consapevolmente. “Non volevo credere che sparassero sui dimostranti, ma mi ricredetti quando sentii che vi erano già due morti: uno a pochi metri da me, l’altro nei dintorni della banca”.
Le parole di uno dei sopravvissuti ci aiutano, almeno in parte, a comprendere la portata di un evento che, pur non lontano nel tempo, rischia di apparire remoto nella sensibilità di oggi, tanto fu violento e costoso in termini di vite umane. Eppure, il luglio del 1960 segnò davvero una svolta. Nel decennio 1951-1961, che si apriva con un misto di fiducia e la voglia di un futuro finalmente sereno, si ridisegnarono gli assetti politici ed economici del nostro Paese; il cambiamento non riguardò solo l’economia, ma trasformò in profondità anche la struttura sociale italiana: grandi migrazioni dal sud, le città che moltiplicavano quartieri popolari e l’affermazione di una società dei consumi in rapida espansione. Sono le premesse per il superamento del centrismo con riforme come la scuola, l’assistenza, i diritti nel mondo del lavoro.
Ma la politica tuttavia faticava a rispondere ad un Paese che si era già trasformato. Di fronte a quelle richieste di riforme sociali prese corpo uno spirito di reazione che portò alla costituzione ai primi di aprile del 1960 di un nuovo esecutivo presieduto da Fernando Tambroni, con il sostegno determinante del movimento sociale italiano.
Nel luglio del 1960 furono proprio i giovani a vivere in prima persona quel bisogno di modernità.Divennero protagonisti nelle piazze, nei comizi, negli scontri tragici, nella morte. Furono l’elemento decisivo e vitale. L’antifascismo tornò ad essere un valore condiviso tra generazioni.
Si riscoprì l’impegno politico quotidiano contro il tentativo delle istituzioni di bloccare il cambiamento, di cedere alla tentazione di un’autorità lontana dalla società civile. In tutta Italia si avvertì l’urgenza di schierarsi, di dare voce alla democrazia. Da Reggio a Licata, da Catania a Palermo, il potere rispose con la violenza al coraggio dei cittadini che rivendicavano il diritto ad un futuro diverso, più giusto, più aperto, come promesso dalla Costituzione. Di quel pomeriggio ci restano i dolori dei famigliari, il dolore della città, l’impressione insopportabile della forza dello Stato. E ci restano anche le fotografie, le registrazioni sonore che restituiscono l’eco di una battaglia, le testimonianze dei feriti e dei sopravvissuti. Tutto questo è raccolto oggi nel centro di documentazione che abbiamo presentato nei giorni scorsi.
Per una più completa ricostruzione storica invitiamo pertanto tutti coloro che possono produrre testimonianze di quei giorni, anche famigliari di appartenenti alle forze dell’ordine, a presentarle. Ci resta un’altra eredità preziosa: il valore di una scelta compiuta con consapevolezza, difesa con il corpo dei manifestanti, difesa col coraggio di quei giovani che si opposero alla volontà di travolgere e stravolgere l’ordine democratico uscito dal 25 aprile del 1945.
Proprio in quei momenti, in quegli anni cominciò a delinearsi, per arginare la partecipazione popolare, quella pratica ben tristemente nota in Italia che prese il nome di strategia della tensione.
Perché ogni anno sentiamo l’urgenza di fare memoria? Perché commemorare quella storia scritta con la brutalità di una battaglia politica e sociale combattuta da uomini che scelsero di resistere alle prepotenze, alle violenze, ai disegni di restaurazione del passato?
Noi ricordiamo quei ragazzi non come esercizio di retorica, non solo per la riconoscenza che dobbiamo loro, per il loro coraggio, per la loro etica disinteressata ed egualitaria; li dobbiamo ricordare perché loro sono la nostra pietra angolare. Oggi la cultura di destra ha un obiettivo: un disegno preciso di revisionismo, di riscrittura di ciò che è stato, di narrazione falsata della storia d’Italia e della nostra storia sociale e politica: si falsano le prospettive, si omettono elementi, se ne enfatizzano altri con il preciso scopo di produrre una diversa immagine della nostra identità comune e condivisa.
Presidente del Consiglio, la nostra Italia, l’Italia che amiamo è nata il 25 aprile del 1945.
Il 17 marzo del 1861 , come da lei dichiarato, era solo iniziata la storia di un’Italia quasi unita, il 17 marzo 1861 in Italia c’era una monarchia; il 17 marzo 1861 le leggi in vigore diventarono quelle dello Statuto Albertino.
Noi preferiamo la Repubblica, noi preferiamo la Costituzione, noi vogliamo un Paese in pace in un mondo in pace. E noi non vorremmo che le parole perdessero di significato e cambiassero di valore, noi non vogliamo un linguaggio storico e politico di artificiosa propaganda che vorrebbe sbianchettare interi capitoli di storia per proprio vantaggio o precise responsabilità (vedi la sentenza definitiva per la strage di Bologna del 2 agosto); noi non vogliamo essere invasi, soffocati, offesi da fiumi di parole mistificatorie che hanno ormai purtroppo sottomesso i pensieri, le riflessioni, i fatti.
La vera resistenza è ormai diventata quella della precisione, dello studio, dell’analisi. Quei ragazzi, quelli delle magliette a strisce, quelli che scesero in piazza con fiducia, senza paura dello Stato; quei ragazzi sono stati il meglio della nostra storia; il loro coraggio, la loro ingenuità, la loro generosità sono le radici della reggianità che non vuole e non può essere offesa dalla menzogna, dalla parola ingannevole o semplicemente falsa.
Ecco perché ricordiamo, ecco perché custodiamo; ecco perché recuperiamo parole come “valori” e “impegno”. È questo il messaggio che dobbiamo custodire e riproporre. Sessantacinque anni dopo, siamo un paese parte dell’Europa, capace di grandi risultati, ma ancora alle prese con sfide antiche ed irrisolte. Sfide che in parte affondano le radici proprio in quegli anni e nelle scelte che seguirono.
Dobbiamo lavorare affinché le parole scritte allora da Pier Paolo Pasolini si realizzino: “sono alieno dalla violenza: e spero che mai più si debba scendere in piazza, a morire. Noi abbiamo un potente mezzo di lotta: la forza della ragione”.

Riguarda le foto della cerimonia

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Ultimo aggiornamento: 11-07-2025, 13:27